Mino Maccari
Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata Banca Carima Spa con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.
07 – 28 Ottobre 1993
Roma – Palazzo Ruspoli (50.000 Visitatori)
Catalogo De Luca
La pittura è la perfezione del sapere
di Giuseppe Apella
Saggio estratto dal catalogo della mostra “Mino Maccari. 1898 – 1989” / Edizioni DE LUCA, 1993
In uno dei taccuini inediti del 1920, nei quali scrive di tutto, a dimostrazione dei suoi interessi e della costante attenzione a quanto gli accade intorno, Maccari riporta il “Discorso per l’inaugurazione della rinnovata Burella” tenuto a Siena nel 1920. I palpiti e le fantasie del liceale, che a san remo sognava di staccarsi “dagli insani contatti della moderna società e dall’ambiente borghese” facendosi un po’ futurista e un po’ romantico, si trasformano in “superba affermazione d’una aristocrazia della giovinezza e dell’intelligenza”, in sdegnosa condanna dell’orribile convenzionalismo di buone maniere che regola la vita moderna, in dichiarazione di guerra contro gli idioti di tutto il mondo, “contro i pasciuti borghesi e i commercianti letterati”, contro i burocrati del pensiero e gli amanti del quieto vivere. A legger bene, sono gli entusiasmi contraddittori di chi non ha un partito, un carattere e un’opinione ma abbraccerà il primo e si formerà gli altri due come esplicazione della personalità. La Burella, e subito dopo “Il Selvaggio”, la pittura e l’impegno di tutta una lunga vita di illustratore-epigrammista, sarà il suo “carcere”, la sua “segreta”, l’arca, la congrega dove sfogare passioni, bizzarrie, amori, odî e sogni, oppure chiudere le beve feroci, alimentare la sacra fiamma dell’Io, a dispetto della gloria, dell’interesse e del guadagno.
Il “Discorso” è privo di un programma preciso ma il lavoro di Maccari, lungo l’arco dei decenni che lo hanno visto protagonista, conserva lo spirito della Burella, è la manifestazione di una volontà che fa di tutto per non rimanere prigioniera della tela di ragno tessuta dalla propria razionalità e utilizza il disegno per cogliere appieno la novità e la complessità delle inquietudini che percorrono il secolo. Il saltimbanco, il “pittore di corte” che fissa un’immagine tra le infinite possibili dell’uomo mai un solo istante lo stesso, e abbandona la mente ad ogni libertinaggio, all’universo delle passioni, perché convinto che non c’è nulla di stabile in natura, e elegge la donna quale soggetto naturale della sua attività, quello stesso uomo sa di dover fare del mondo in cui vive il luogo della scena trasferito all’interno della propria stanza, con tecnica narrativa tutta fedeltà al reale e illusione del reale.
È, dunque, tutto chiaro fin dagli inizi: è necessaria una partenza tradizionale (Fattori e i maestri del Rinascimento, le campagne della Val d’Elsa e i sobborghi di Livorno), con rispetto pieno della struttura ottocentesca, non del pittoricismo dell’Ottocento, per arrivare a una dolcezza espressiva mascherata da virtuosismo scatenato; è utile simulare alla perfezione la realtà, mescolare persone vere con modellini animati, dirigere la commedia delle donnine che esercitavano il loro potere su uomini allegramente sottomessi, per compiere il viaggio nei meandri dell’animo umano. Il comico non è espressione dell’etica? Ogni dipinto o disegno un’idea provocante e carica di suggestione, con quella magia della costanza che ne fa la più difficile e rara delle virtù; ogni colpo di bulino o di sgorbia mille seduzioni emotive e intellettuali, un filo multicolore ininterrotto e vario, un resoconto minuzioso, senza falsi pudori o reticenze, di tutti i pensieri del proprio spirito, dei moti del proprio cuore, sull’esempio dell’amato Diderot.
È nella pittura che convergono, nel modo più impegnativo, senso e conoscenza e si produce quell’immediato stato di grazia, quell’emozione percepita in un attimo, con alle spalle un mezzo primario di scienze dell’operare: la storia dell’arte moderna, che Maccari conosce bene per avere l’ebbrezza di dimenticarla: Impressionismo, Macchiaioli, Fauves, Fattori, Cézanne, Degas, Derain, Renoir, Matisse rivisitati, in un primo tempo, attraverso il pittore colligiano Antonio Salvetti, e Ardengo Soffici, e Ottone Rosai, maestri di una generazione con radici nella letteratura toscana. Lui stesso a voluto suggerire, in quattro versi, che “In errore fu che disse / che di Grosz sono fanatico. Preferisco Henri Matisse / Renoir m’è più simpatico”. La simpatia per il pittore di Limoges è un richiamo a Delacroix (“Un pizzico d’ispirazione ingenua è preferibile a tutto”, “Il tono che costituisce il valore, che conta nell’oggetto e lo fa essere”), è la festa pagana e sensuale dei colori che vogliono esaltare la donna, è ilmito della scrupolosità, l’amore per la materia, la schietta sensualità dei volumi espressi per divisioni di tocchi cromatici, per ombre colorate. Eppoi, non è Renoir a confontarlo sull’importanza del soggetto nei quadri e sulla necessità di non abbandonarsi all’aneddoto? Pittore di costume come Renoir, Maccari non sa fare a meno della presenza umana per esprimere la natura dei sentimenti che lo muovono, e guarda, sente e lavora con colori dominanti caldi, si pone di continuo esigenze di rinnovamento per superare il tormento della facilità della mano che impugna il pennello o la matita divenuti terminali del pensiero.
Per non cadere nel vicolo cieca di chi ogni volta arriva al limite di qualcosa (segno, soggetto), volge lo sguardo alla tradizione classica, si confronta con Goya, Degas, Kokoschkab ed Ensor, avverte che il suo maggior pericolo è la dispersione, ritorna alla qualità del disegno, elemento intellettuale, per riconquistare l’elemento sensitivo, il colore. È, tutto ciò, il rifugio in una formula da parte di chi le ha sempre disprezzate? È il culmine di una frattura avvertibile nei primi anni Cinquanta, quando si piega a una consapevole asciuttezza e chiede al colore di farsi disegno, di suggerire la forma, a costo di dover passare per “espressionista”. Era successo agli inizi degli anni Venti e subito dopo l’esperienza fiorentina de “Il Selvaggio”, quando fu spinto a compiere uno sforzo di disciplina rimettendo tutto in questione, ripensando gli stessi dati della tecnica. Disciplina, tuttavia, non significò costrizione, così che il ritorno al colore non lo sottomise alla realtà, anzi il soggetto venne dominato da un’unità colore-linea-volume-luce, con toni e presenze femminili di volta in volta predominanti come simboli di eterna giovinezza, senza cedere a teorie, guidato da un’idea sviluppatasi con il procedere del quadro, dietro lo stimolo di un titolo suggeritogli da una lettura, dalla fotografia “curiosa” pubblicata sul giornale o scattata da lui stesso nei vagabondaggi strapaesani. Maccari, infatti si espone a lungo alle più diverse visuali dell’oggetto che intende ritrarre, fino a che il frutto dell’osservazione non si impadronisce della mano-cervello per presentarsi come emerso dal profondo. L’immagine cresce di sequenza in sequenza, di testimonianza in testimonianza, fino a che la spigliatezza esteriore, il gusto d deridere, l’irriverenza, la leggerezza, l’allegria, il paradosso violento – in sostanza la toscanità – non assumono le caratteristiche di uno stile, proprio di chi è convinto che la pittura è un modo di vedere, l’arte è nell’idea, e questa espressione genuina dell’intelligenza, istintivamente, disegnando, può far centro. “Nel mio mestiere, non seguo altra legge che la simpatia: simpatia lungamente covata e improvvisa, per certi segni, certi colori, certi movimenti. Quando un occhio ride, una bocca parla, un piede si muove, quando un accordo è raggiunto e una linea vibra, che importa se il segno è breve e se il colore è appena disteso? È l’incubazione, secondo me, che conta; l’intensità dell’intenzione che vale. Poi, un attimo o un anno sono la stessa cosa. Io tiro a segno. Un segno che mette in moto un sentimento…il meccanismo dei segni…dei ricordi…delle allusioni…forse della poesia. Mi contento di un centro ogni tanto, e, nell’attesa, mi diverto a spaccar pipe”.
Riappare, all’improvviso, la simpatia per Matisse, non solo per il suo praticantato nello studio di un avvocato a Saint-Quentin, quanto per le sue prime prove (“Un pittore è tutto nei suoi primi quadri”) nutrite dalla tradizione più esigente, per lo sforzo continuo di ridurre la pittura ad elementi fondamentali come linea, ritmo, luce, colore, necessari per semplificare non per ingombrare il pretesto figurativo. Infine, sull’esempio di Cézanne, per la costanza di dipingere per imparare a dipingere. È il lavoro, infatti, che sollecita l’invenzione, che scopre il contenuto pittorico, scatena i demoni, sprigiona le forze occulte e represse. Trascrive, nei Taccuini del 1953, un pensiero di Baudelaire a proposito dei sistemi hegeliani: “Ho provato più volte a chiudermi come i miei amici in un sistema per predicare a modo mio. Ma un sistema è uno specie di dannazione che ci spinge a una continua abiura: bisogna sempre inventarne un altro. Condannato all’illuminazione d’una sempre nuova conversione, ho preso una grande decisione. Per sottrarmi all’orrore di queste apostasie filosofiche, mi sono orgogliosamente rassegnato alla mia modestia: mi sono contentato di sentire, ho cercato asilo nell’impeccabile ingenuità”.
Si scopre un virtuoso della messa in scena: gira intorno all’ostacolo, improvvisa nodi senza scioglierli, prende alla larga la composizione, si distrae nei sogni, si perde nelle fantasticherie, si diverte con le bolle di sapone per trasformare tutto in immagini. Perché sa che l’arte è evocazione e l’evocazione non è regolabile con un gioco di rubinetti, non può essere condizionata, il suo clima naturale è la libertà. Naturalmente, la libertà cui fa riferimento è quella degli impressionisti, attenta ai valori poetici e sciolta dagli estetismi, dai dottrinarismi, dalle incrostazioni, dalle deviazioni, dalle vecchie e nuove accademie in cui si sistemano Novecento, la Scuola Romana, il Realismo, l’Informale. O quella riscontrata nelle pellicole mute di Von Stroheim e Mae West, ricche di gioco allusivo, di cadenze, di associazioni d’immagini. Ne risulta uno spettacolo multimediale in cui alle risorse specifiche del linguaggio artistico si aggiungono quelle del linguaggio cinematografico. La pittura, per non diminuire il rispetto di se stessa prostituendosi davanti alla realtà esteriore, tende sempre di più a utilizzare suggerimenti in fitta serie, movimenti, atteggiamenti, trapassi da un gesto all’altro, sogni. La tecnica del film muto, della danza, della musica jazz, in cui più personaggi intervengono sulla sce3na e l’uno doppia l’altro per farsi protagonista, alimenta il disegno di Maccari nell’allestimento di uno spettacolo onirico, tutto intuito diretto delle cose, a lampi di grazia e di ambiguità, spesso irridente, che sfrutta ogni giocosità, la stessa gestualità ora enfatica ora meccanica, per fare delle pittura, in qualche modo, un film di fatti interminabili, scoperto, all’infinito. Sono gli anni d’oro del lavoro di Maccari i cui la pittura si attiene scrupolosamente a tre momenti (ricerca, critica, soluzione) e il disegno (spesso ripetuto cento volte) non scade mai a grafia, possedendo, come Morandi, l’orgoglio dell’umiltà o, in mancanza, la buffoneria della serietà. “Non nel cervello / ma nel pennello / chiusa è la forma / e par che dorma. / Quando dipinge / fuor la sospinge / in piena vista / un vero artista / e sulla tela / altrui la svela, canticchia mentre dà la parola alla matita o alla sgorbia, senza interrompere il ritmo, senza turbare l’incanto, debitori – scrive della minima vibrazione della vita che ci circonda e che, anche nel peggiore dei casi, procede. “Dagli impressionisti ai fauves. Gli espressionisti no, perché non fecero che applicare le formule impressioniste a generi antichi (primitivisti, diabolisti). L’espressionismo è un atteggiamento reperibile in ogni epoca”
È un modo per porre il problema del realismo, presentatosi tra il 1919 e il 1926 con la “scoperta” del paesaggio toscano che introduce nel suo lavoro profonde trasformazioni sollecitandolo prima alla natura morta (Braque e Cézanne riletti attraverso Soffici) e poi a quella serie di “interno con figure” che lo convincono della impossibilità di copiare servilmente la natura o di dipingere “alla maniera di”, nonostante gli echi, i connubi di oggetti propri e sottratti ad altre opere, simili alle donnine e ai commendatori di cui si circonda per segnare le tappe del cammino percorso. Le cose viste sono un modo di vedere, ossia: la dimestichezza con i valori della cultura dà immediatamente 7un senso ai propri segni. Si dispongano, allora, in parallelo dipinti e disegni di un periodo, ad esempio 1926-1936, e si vedrà come avviene la registrazione di ciò che è sfuggendo alla monotonia, all’ordinamento di frammenti di fatti, allo stile della morte, propri del realismo. Maccari, sulla scia di Morandi, per anni suo punto di riferimento, si serve di metafore per soffermarsi sull’insostenibile malinconia connaturata ala cose. Ha guardato con attenzione Caravaggio e Goya ed è convinto che la realtà può essere enigmatica, mai inerte e cinica. La stessa simpatia-antipatia per il viaggiatore di Calvino è affidata a quell’occhio che non vede cose ma figure di cose che significano altre cose. Le nudità che le donnine mettono in mostra valgono per se stesse e sono segni d’altre cose. È proprio l’apparente casualità del segno o della pennellata a suggerirci allusioni, a farci pensare a un “codice”, a segnalarci il vocabolario (teste, gambe, seni) e la sintassi (prospettiva, tono, volume) oltre che le contraddizioni derivatene. Si potrebbe, in molti casi, mettere anche le ore alle opere, soprattutto quando interpretano la natura, la piegano allo spirito del quadro, vivono, cioè, tra decorazione e astrazione, Maccari assorto in meditazioni, attratto dall’essenzialità, perduto nella materia delle cose, nel gusto della pittura, riconciliato nella soddisfazione di due termini antitetici quali osservare e trasporre. Questi passaggi sono segnalati da toni cupi o da toni chiari. La luce, ogni volta, modifica il repertorio, sollecita – sullo sfondo – la presenza di un paesaggio schematico, quasi l’opera fosse stata compiuta en plein air, accentua il disegno privo di sfumature, di ombre, dello stesso colore. Tutto ciò, a riprova della profonda conoscenza del tempo in cui è nato, risponde non solo alla complessità di una personalità qual è Maccari ma anche agli indirizzi dell’arte moderna della seconda metà dell’Ottocento. Scrive su un quaderno del 16 maggio 1921: “I miei occhi oziosi hanno a poco a poco scomposto i vari toni di colore, le luci, le ombre, le penombre, i riflessi che davano un’anima a quella natura morta, e ho scoperto i misteriosi rapporti fra il giallo smorto della piccola scatola e il cilestrino della porta; ho scoperto meravigliato il magico influsso dell’ombra della scatola su un lapis rosso blu spuntato; mi sono indugiato con compiacenza e con tenerezza a osservare le costole variopinte dei quaderni che covavano nell’ombra; e mi sono inoltrato nel gioco dei riflessi del tavolino come in un labirinto incantato…Il mio spirito s’è fatto attentissimo, ha proceduto, come in punta dei piedi, in paesaggi fantastici di sempre crescenti meraviglie; e ho cominciato a sognare strane danze d’ondine azzurre smeraldo…”
La tensione fra la realtà delle cose e la realtà delle pitture è assidua in Maccari almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, poi viene avanti, e si fa costante, il soggetto, con alcuni attributi specifici della pittura. La figura si spiana eliminando o modificando notevolmente la forma caratteristica, lo spazio prospettico si svuota, ma non perde di vitalità il rapporto segno-significato. Anzi, simile a una saetta, dove si determina lascia la propria impronta. Il foglio bianco diventa fonte di energia, luogo dove combattere le proprie pulsioni con la serenità delle cose, raccordando sarcasmo e sorriso, tragicità e malinconia, sdegno e giocondità, invettiva e compassione. Il metodo di lavoro, tutto immediatezza, gli consente di gettare il suo ingegno, scrive Flaiano, come coriandoli di una carrozza di carnevale e di riempire non più i giornali ma le case degli amici di tavole inquietanti, nelle quali la caricatura resta ancora l’arte e la filosofia che interessava Baudelaire. L’occhio, una mano di Manet, che Maccari cita per ribadire il suo vedere e far vedere, saturo di quelle cose restituite di volta in volta, dopo una lunga convivenza, per il rinnovamento del gusto e della cultura propri delle generazioni formatesi nel primo dopoguerra, torna a farsi determinante oggi, tra crisi e smarrimenti, per quanti credono ancora nel futuro dell’arte e della società.