I Postmacchiaioli
120 opere della pittura italiana nei primi del ‘900
Roma – Palazzo Ruspoli (70.000 Visitatori)
03 Dicembre 1993 – 28 Febbraio 1994
Catalogo De Luca
Un’avventura toscana
di Raffaele Monti
Firenze 1980. Abbiamo scelto questa data come riferimento per iniziare la nostra avventura critica. Premettiamo che, per la necessaria concisione di un discorso funzionale alla comprensione di una mostra abbastanza inconvenzionale, non vogliamo riesaminare le complesse e ben note cause che provocarono la crisi da cui fu investito, dopo l’esperienza di capitale del regno, quello che era stato sino a pochi anni prima uno dei centri culturali più attivi d’Italia e di gran lunga il più importante per il rinnovamento “nazionale” delle arti figurative.
Per quanto riguarda il nostro argomento specifico partendo anche dalla riforma macchiaiola degli anni ’50-’60 il crinale della situazione è acuto ed equivoco; pur sempre attivi – ed anche ad alto livello – i grandi protagonisti di quella stagione, anche da parte dei critici e degli storici più acuti (Diego Martelli ed il Cecioni in testa), si inizia un’opera di modificazione delle ragioni e dei riferimenti culturali che erano stati alla base del grande rinnovamento degli anni cinquanta; si accolgono, anzi sovente si impongono i programmi di quel naturalismo internazionale che da Parigi stava dando cattivi esempi alle tenerelle scuole nazionali di tutt’Europa. Son Ben noti gli adattamenti di Signorini (e sin di Lega) a queste poetiche alla moda. In realtà l’ufficialità pittorica fiorentina stava passando nelle mani di Cannicci, di Ferroni, di Francesco Gioli, e di tutti quegli “allievi” macchiaioli, che erano anche stati allievi dei vari accademici in disarmo e che riuscirono – spesso anche ad alto livello – (e questo è ancora tutto da rivedere) a coniugar le sottili aure toscane con la stagnante complessità narrativa degli allievi di Breton o di Bastien Le Page.
Fattori resisteva quasi inascoltato e continuava a seguir la sua idea della ricostruzione per volumi (sempre più drammatici) sottoposti ad una impervia dinamica dello spazio visibile.
Quella ricerca che, come scrisse Argan, se fosse stata capita a fondo avrebbe potuto costituire la linea portante dell’arte italiana del ‘900.
Ma non dobbiamo parlar di Fattori, bensì di quei pittori che, soprattutto in questi anni, più o meno apertamente furono in polemica proprio con il loro amato maestro. Ne capiranno, però a fondo il magistero esemplare, tra questi postmacchioli di cui stiamo scrivendo, soprattutto quelli delle seconda generazione: Ghiglia, Viani, Modigliani, de Witt.
Avvertiamo subito che per noi, questo termine di “Postmacchiaioli”, riesumato da una ormai vecchia tradizione che racchiudeva nel termine medesimo tutti i pittori toscani attivi dal 1880 al 1920 (un bel pasticcio di valori imparagonabili e di tendenze inconciliabili) vuol polemicamente significare invece tutti quei pittori – una ventina, circa – che pur nella declinazione di alcuni principi macchiaioli, evitando le secche naturaliste ed i fraintendimenti impressionisti, furono capaci di tendere, per quattro decenni almeno, un’arco di visualità rinnovata, carica sovente di una percezione sensibilmente aperta verso il nuovo secolo.
Seganto così a grandi linee il panorama da cui partirà il nostro discorso, dato il breve spazio che ci compete e la vastità della materia, inizieremo “storicamente” il ragionamento evitando la tentazione di cedere ad elissi critiche e proposizioni sincroniche che renderebbero certamente più vivido il discorso a scapito però di una necessaria chiarezza espositiva.
Nel 1882 espone per la prima volta alla mostra della Società di incoraggiamento di Firenze, sotto lo pseudonimo di Ulivi Liegi, un giovane di ricca famiglia ebraica livornese, Luigi Levi.
Colto, irrequieto, un tantinello sofisticato, già due anni dopo dipinge telette e tavolette che – oltre la meditata matrice signoriniana – presentano tratti di originalità non solo indubbia, ma di alto livello formale. Egli in realtà, possiede una capacità percettiva ed una sottigliezza culturale di livello inconsueto forse favorita dalla sua educazione ebraica che gli permette di liberare la sua evidente radice macchiaiola da tutti quegli apparati emotivi ed emozionali che la tradizione della macchia, anche quella più originale e gloriosa, conteneva soprattutto per la sua vocazione storica e nazionale.
Una sensibilità acutissima supplisce ogni coinvolgimento d’emozione e di programmi, definendo un distacco ottico di qualità realmente primonovecentesca; già da queste finissime opere – tra cui si comprendono alcuni capolavori (ricorderemo il mirabile Lo studio del pittore, al n. 1 del catalogo, d’una maniera libera ed aggrumata da ricordare il Cavaglieri degli anni 1910/1920) – il nostro giovane artista è capace di adoperare tutti gli elementi della visione consueta alla stregua di “materiali” elaborati mentalmente attraverso un procedimento astrattivo. In questo processo d’allontanamento dal vedere “naturale” il pittore definisce spesso organismi cristallini, taglienti, capaci di accogliere nella loro struttura elementi che anche la più aperta mente antiaccademica d’allora avrebbe pur sempre definito scorrettezze o tuttalpiù manchevolezze tecniche; come infatti regolarmente avvenne. Viaggiando a Parigi e a Londra, pur nella comprensione ammirata dei grandi eventi dell’Impressionismo non modifica il suo stile; in realtà in questo stringente universo mentale non v’è posto per modificazioni che vadano oltre il variare di una tavolozza che da Signorini ave4va appreso la capacità di giungere ad iperboli di sensibilità assolutamente antiemotiva.
Ulivi Liegi rimarrà per tutta la vita un isolato, capace di guardare la storia dall’alta di una inconvenzionalità ai limiti dello snobismo.
Solamente alla fine del secolo, quando la sua vena si affievolirà – soprattutto per la sua stessa natura mentale – il suo discorso potrà trovare tangenze con altri eventi pittorici emergenti; ma solo questi primi vent’anni di frigidi incantesimi, di narrazioni sovente al limite del visionario, fanno di lui uno dei maggiori pittori italiani dello scorcio di secolo.
Abbiamo cominciato dunque la nostra rassegna parlando di un isolato, di un piccolo genio solitario capace di trarre il succo acidulo ed incantatorio dalla storia che lo aveva nutrito e di cui egli avvertiva nettamente il pericoloso crinale di decomposizione.
Un pittore che d’altra parte più d’ogni altro serve al nostro discorso dimostrativo, in quanto appare un paradigma di tutto ciò che i suoi colleghi, pur nei loro modi originali, diversi e diversificati, riusciranno ad attingere negli anni immediatamente seguenti.
Infatti se in Ulivi Liegi le inquietudini e le necessità di mutazione si chiudono nel cerchio di un’esperienza privatissima, ben diverso sarà l’atteggiamento di un gruppo di suoi amici e colleghi quasi coetanei, tutti allievi più o meno diretti di Fattori, ammiratori di Signorini, ma incubati, in questi anni dal proselitismo di lega che in questo momento sembra suscitare in loro uno specialissimo interesse per l’Impressionismo; un interesse mediato, contraddetto e contraddittorio ma tutto sommato salutare come deterrente dei fantasmi naturalisti che pur si annidavano nelle primissime esperie4nze di alcuni di loro. Com’è ben noto, Lega era ospite in quegli anni della famiglia Tommasi – bene-stanti livornesi che avevano preso casa a Firenze alla Bellariva – ed era divenuto maestro dei due figli Angiolo e Lodovico; un terzo Tommasi, il cugino Adolfo è forse il più interessante tra i pittori del Naturalismo fiorentino. Questa frequentazione leghiana cominciatanell’80 e durata per circa un decennio rischia di far nascere un evento di primaria importanza; la definizione di una linea di ricerca che partendo dal rinnovamento coloristico e strutturale operatosi nel linguaggio leghiano alla fine degli anni settanta ne svolgesse gli originali caratteri attraverso gli occhi rinnovati dei due giovani fratelli. In realtà non andò così: Angiolo, il maggiore dei due, esibì per alcun tempo una vera e propria mimesi dello stile del maestro, di raffinatissima qualità ma tutto sommato inerte. Diversamente Lodovico, di alcuni anni più giovane, riesce a guardare a Lega con sensibilità critica. Gli esempi del maestro son da lui quasi sempre affrontati all’interno delle ragioni pittoriche, attraverso una pennellata che oscilla con piena libertà tra impasti suadenti, preziosi, ed annotazioni dirette, secche, quasi impulsive. Si potrebbe dire che mentre in Angiolo il magistero leghiano appare istintivo e involuto, nell’acuita sensibilità di Lodovico esso genera affondi improvvisi, annodamenti problematici, e soprattutto è causa diretta dell’esclusione di qualsiasi elemento naturalista. È una pittura ipersensibile anche se sempre segnata da un alone di fragilità che genera di lì a poco una scarsa capacità di sintesi formale; difetto che apparirà netto nei primi anni del secolo quando Tommasi intenderà misurarsi con le problematiche delle secessioni europee.
Meno diretto, ma certamente attivo fu il contatto che, Lega ebbe con coloro che Martelli e Signorini chiamano “gli Impressionisti livornesi”, Nomellini, Muller, gordigiani – figlio del celebre ritrattista Michele – Kienerk, Banti, Salmonì e pagni tanto per indicare i nomi (alcuni completamente caduti nell’oblio) furono i più polemici fra quei giovani che negli anni dopo l’85 si erano aggregati al gruppo dei leghiani probabilmente solo per l’aura anticonvenzionale che esso deteneva nell’ambiente fiorentino.
Questo tempo tra l’86 ed il ’91 – anno in cui essi esposero in gruppo polemico alla Promotrice fiorentina, racchiude il nodo – in parte non ancor chiaramente decifrabile – che doveva cambiare il volto della pittura toscana riconducendola ad una parziale supremazia anche sperimentale
Sappiamo che Muller tra l/’87 e l’88 andò a Parigi e dopo aver frequentato lo studio di Flameng e di Carolus Duran, divenne ammiratore e seguace di Pissarro e di Monet. Lo sappiamo ma ne abbiamo scarsissime prove; infatti – tranne un’opera da poco rinvenuta – l’intera attività di Muller sino alla fine del secolo è dispersa.
Tornato a Firenze nel ’90 il pittore livornese riallaccia immediatamente i rapporti con i vecchi amici; in primis con Plinio Nomellini, sino ad allora attivo in ambito leghiano, anche se con sbandate signoriniane, forte dell’alta stima di Fattori, che dichiara spesso di essergli stato maestro. Nomellini proprio nell’88 era balzato alla notorietà con Il Fieno, tela di inusitate dimensioni, piaciuta immediatamente a Martelli e Signorini; opera notevolissima anche per il rifiuto degli accomodamenti naturalisti attraverso i quali era d’uso a Firenze risolvere gli spiriti millettiani alla moda. Questo Fieno è un’organismo mobilissimo ed attivo in cui una fitta pennellata sembra riprendere il suggerimento delle acqueforti fattoriane nel loro segno costruttivo e serrato. Alla sua stesura pittorica non si possono negare nette anticipazioni divisioniste, e tangenze segantine.
Il ritorno alla Francia di Muller avvenne così in tempi estremamente opportuni; ricostituitosi il gruppo degli impressionisti livornesi con l’aggiunta del giovanissimo Leonetto Cappiello, si giunse all’esposizione del’91, nota soprattutto per la ripulsa del vecchio Fattori, preoccupatissimo nel vedere i suoi giovani allievi abbandonar grammatica e sintassi di tradizione e smantellare la struttura in un onnivoro colore-luce pericolosamente accordato sopra una tonalità da “risotti gialli”. <In realtà oltre la testimonianza positiva di una recensione di Martelli, ben poco si sa direttamente di tale mostra a causa della dispersione dei quadri in essa presenti. Solamente ora, dopo anni di ricerche, si può ipotizzare un’inizio di ricostruzione, essendosi ritrovata infatti La cavalla Asmara di Banti, opera certamente di qualità medie ma abbastanza indicatrice dei programmi attivi nel gruppo contestatario. Con qualche probabilità anche il celeberrimo Golfo di Genova di Nomellini e l’Interno con figura di Capiello fecero parte dei quadri esposti data l’assonanza dei soggetti di queste due opere con i titoli citati in mostra da Martelli o da Fattori. Il ritrovamento poi del Bagni Pancaldi di Muller, datato 1891, ci può far meglio intendere questa poetica “paraimpressionista” di cui parla Fattori nelle sue lettere a Nomellini; ed abbiamo anche la riprova che la pennellata fratta e puntinata di Muller resta ben diversa da qualsiasi quadro del divisionismo nomelliniano.
Con tutti questi problemi ancora irrisolti ed in parte insolubili, si deve però convenire che questa sala dei “Mullerini” com’essi venivano chiamati da fattori, resta, nel nostro panorama, un evento determinante. La giovane pittura toscana è finalmente uscita – anche se con azzardi ed incertezze – dall’impasse tardo-macchiaiola ed inizia un suo discorso nel quale i riferimenti all’Europa non si riducono ad adesioni naturaliste o all’assunzione di formule alla moda, ma son nette e se pur a volte ancor immature, prese di posizione arricchite da una polemica più che altro emotiva ma indubbiamente ricca di interiori necessità.
Disperse le opere di Muller, di Gordigiani, di Banti, morto senza quasi lasciar traccia di sé il Salmonì, ritiratosi a Torre del Lago il Pagni, in un esercizio di pittura intimista a specchio della sua amicizia con Giacomo Puccini, divenuto francese per forza di genio e di successo Cappiello, resta solamente Nomellini ad indicarci i meriti, le cadute e le conseguenze di questo straordinario evento. Ormai di Nomellini si sa tutto o quasi; dopo la mostra del ‘ 65 voluta da Ragghianti a Palazzo Strozzi, anche se con iniziali resistenze, sono cadute le ripulse critiche che da oltre trent’anni avevano relegato il nostro pittore in una sorta di vera e propria damnatio memoriae. È stato ad esempio chiarito il ruolo primario che egli ebbe nella definizione e nella trasmutazione delle poetiche del divisionismo, del quale certamente rappresenta il volto meno programmatico e per molti versi più imprevedibile ed emozionante. Un divisionismo “istintivo” rinsaldato in una tensione strutturale che dimostra chiaramente lo studio delle opere fattoriane di quegli anni intorno al ’90. Anche nei suoi aspetti umanitaristici e sociali (è ben nota l’adesione in questo lasso di tempo del pittore agli ideali anarchici), il divisionismo nomelliniano rifugge alla programmatica d’uso approdando alla definizione di un’immagine di impulso quasi sensitivo, capace di porsi nel percorso ottico con una traiettoria rapidissima e lunghi tempi di risonanza. Questo momento di definizione linguistica resterà determinante nel successivo sviluppo del suo fare, anche quando lo stile di Nomellini parrà affaticato dall’assunzione di molti degli stilemi formali del simbolismo internazionale; questo d’altra parte non gli impedirà in quegli anni ultimi del secolo di dipingere opere di fluente vena intimistica ricca sin di ricordi leghiani, accesi a volte da un lirismo incandescente quasi a premonizione delle sue future ufficialità nazionali.
In questo scadere di secolo pur abitando ancora a Genova (si trasferirà a Torre del Lago nel 1899) Nomellini rimane in contatto con gli amici fiorentini; è infatti di questi anni il suo sodalizio con Angelo Torchi e Giorgio Kienerk, il primo emiliano, passato da Parigi dove aveva ben visto Monet e Pissarro, il secondo giovane di raffinata cultura e di sensibilità vivida, in una sua ricostruzione divisionista del paesaggio. I due pittori lavorano ad Albaro, presso Genova ospiti di Nomellini, e riesercitano a volte sopra lo stesso soggetto al quale applicano ciascuno a suo modo, la tecnica divisa. Kienerk, che dopo gli anni novanta diverrà forse il più acuto “trait d’union” tra la pittyura toscana e le poetiche del decadentismo, ora, per niente plagiato dalla prepotente personalità del suo ospite, dipinge opere divisionististe di una freschezza d’immagine che ci rammenta i suoi inizi legati all’ottica signoriniana.
Nelle sue tele una tavolozza di limpidezza adamantina non mai offuscata dalla monima ingorgatura “naturale” riesce a esprimere sensi vivissimi di profondità d’aria e di lontananze fermate quasi in uno stato ‘evocazione dalla puntura del pennello.
Ma già in una delle sue opere più belle, Sorge la luna, quasi un trasalimento simbolista amplia il respiro del bellissimo paesaggio; da questa predisposizione “oltre” il perfetto risalto dell’immagine si determina uno stato d’animo che affiora dalla granatura della pennellata, e si leva, “mentre la luna è prossima alle soglie/cerule e par che innanzi a sé distenda un velo…”
In effetti negli anni immediatamente seguenti, Kienerk, privilegiando l’attività di grafico aggiornatissimo sui gusti sofisticati delle riviste francesi e tedesche, spesso sospingerà questo pedale simbolico un po’ troppo oltre il peso formale dell’immagine che lo contiene.
In questi anni sullo scorcio del secolo in Firenze la giovane cultura tenta finalmente un riscatto, attraverso il quale, superando l’adattamento borghese degli anni postunitari fosse possibile ritrovare il ruolo guida che la città aveva avuto pochi decenni avanti; un ruolo che le avrebbe consentito un aggancio diretto con i maggiori centri culturali europei. Sarebbe da parte nostra assurdo il rimproverare ai “riformatori” fiorentini la scelta delle poetiche simboliste dell’attardato preraffaellismo, di uno spiritualismo venato di arcaismi già leggermente inaciditi; son questi infatti i punti di riferimento costanti adottati da tutta la convenzionalità “riformata” d’Europa e che, negli stessi anni, segnavano le punte più avanzate nelle scelte della neonata Biennale veneziana.
E così la famosa rivista fiorentina Il Marzocco, non si discosta da tali scelte, e ad esse sarà improntata la grande rassegna che si aprirà a Firenze nel ’97 dal nome augurale e ridondante “Festa dell’Arte e dei Fiori” (cosiddetta anche per un’esposizione floreale che integrava bellamente la vera e propria esposizione d’arte), mostra che fu poi una sorta di prova generale della grande esposizione organizzata sette anni dopo a Palazzo Corsini dai giovani intellettuali “secessionisti” (De Carolis, Ghiglia, Costetti, Nomellini, Kienerk, de Witt, Lloyd), con l’appoggio di Papini e di Borghese, teorici del gruppo. Nel frattempo a Firenze altre riviste – da Hermes, a Il Cimento e soprattutto Il Leonardo – stavano realmente mutando il volto dell’agone culturale non solo cittadino; è del resto questo un problema ben noto e variamente studiato sul quale non ci è possibile soffermarci più che tanto. A parte l’ambiguità a dir poco inquietante dimostrata dal giurì di scelta in ambedue le esposizioni (per cui si tentava di dar volti “ideali” a vecchia ruderi del naturalismo come Cannicci o a giovani “passe par tout” come Filadelfo Simi), ci sembra che la revisione degli eventi pittorici condotta soprattutto sui casi della nuova ufficialità culturale e delle riviste ad essa attinenti, oggi d’uso comune, possa rischiare di sviar l’attenzione dai fenomeni originali ed emergenti; come è sempre accaduto in casi del genere.
Il fatto che tutti o quasi i nostri postmacchiaioli del momento fossero spesso protagonisti degli eventi suddetti non ci deve impedir di individuare la loro singolarità spesso ben lontana – per lo meno nei significati più sorgivi – dalle nuove retoriche.
La nostra linea di lettura non ci consente dunque di attardarci oltre su questi eventi per altro verso capitali. Certamente, d’altra parte, ad essi si può far risalire ad esempio la modificazione del simbolismo nomelliniano verso esiti di più scoperta retorica, modificazione avvertibile già immediatamente dopo il suo trasferimento a Torre del Lago (1899), al culmine della sua più fertile creativa.
In quel rifugio naturale ai limiti della Versilia, tra mare e padule, in una terra ancora intatta e tranquilla malgrado le pericolose vicinanze con il “serbatoio anarchico” d’Italia, si stava riunendo intorno alla personalità realmente carismatica di Giacomo Puccini, un gruppo di giovani pittori tutti o quasi di scuola fattoriana e di nascita livornese; gli alisei simbolici ai quali scaldavano le loro tenere inquietudini servivano da mezzo più o meno leggitimo per sentirsi in grado di interpretare in immagine l'”ipersentimento” pucciniano; in realtà a gran parte di loro sfuggiva il senso di quell’eccesso emozionale e la qualità tutta mentale di un linguaggio pucciniano regolato nei parametri di uno spietato stilismo.
Se Nomellini fu certamente la personalità di gran lunga emergente in questa piccola scuola di bohèmiennes un tantinello patetici, Ferruccio Pagni e Francesco Fanelli – ambedue provenienti dal gruppo dei “rivoluzionari” fiorentini di frequentazione leghiana – sono gli interpreti più singolari di questo episodio relativamente marginale ma così singolare da non poter essere trascurato nel nostro discorso. Per quanto se ne può ricavare dalle poche opere rinvenute della loro lunghissima attività, i due declinano il segno nomelliniano (ed a volte anche signoriniano) e il “poeticismo” di Angiolo Tommasi (anch’egli trasferitosi sulle sponde del lago di Massaciuccoli) in immagini a tatti fortemente evocative; più saldate da una pittura tendente alla “materia” nomelliniana in Pagni, di più acuta e di penetrante percezione in Fanelli, la cui dimensione “lirica”, tenue ma a tratti realmente evocativa, si va man mano determinando nel recupero sporadico delle opere.
A questo cenacolo pucciniano in anni immediatamente successivi si avvicinerà Galileo Chini, le cui origini di pittore erano ben diverse da quelle accademiche del nostro gruppo; per ultima via approderà il giovanissimo Lorenzo Viani, conosciuto da Nomellini che, intuendone le straordinarie dati di pittore, lo aveva preso a modello per la figura del trombettiere del suo Garibaldi, ed infine era riuscito a convincerlo ad andare a Firenze a studiare presso la Scuola libera del nudo tenuta presso l’Accademia da Fattori. Poche ma chiarissime opere rimangono a testimoniare questa stagione torrelaghiana e nomelliniana di Viani; il suo trasferimento a Firenze nel 1904 muta radicalmente la situazione; l’insegnamento fattoriano e la frequentazione dei giovani intellettuali del Leonardo, di Hermes e del Marzocco, interferiscono in maniera decisiva nella sua avventurosa incertezza; la prima creando una coscienza storico-formale legata alla conoscenza della realtà attraverso libere misurazioni spaziali, la seconda determinando una disponibilità accentuata a cogliere dagli eventi europei, che per ora gli arrivavano a Firenze, provocazioni ed affinità. Una selezione che, per certi versi e lasciando fuori l’aspetto umanitario e sociale, che in Viani avrò sempre peso determinante, ricorda quella coeva di Modigliani.
Gli impianti scaglionati e scontrati che determineranno da ora lo spazio vianesco, oltre l’insegnamento fattoriano indicano nel pittore un elemento attivo e costante che in quegli anni si arricchirà nella frequentazione dei musei fiorentini, accanto al recupero in chiave mediamente simbolica degli esempi tre-quattro-cinquecenteschi che Costetti e il giovanissimo Ghiglia andavano attuando e che De Carolis, proprio a Firenze, svolgeva su parametri culturali ancora tardoruskiniani.
Questo suo interesse archeologico si appunterà in un recupero “neoprimitivo” che in toscana segnerà una stagione importante e sinora trascuratatissima. Negli innesti di soggiorni parigini il Viani si arricchirà come per Modiglini (e Andreotti) di esperienze “orientali”-nella frequentazione del museo Guimet Cernuschi, e affiorerà sempre di più la sua vena emotiva (o come si suol malamente dire espressionista) colma di riferimenti a Rops, a Munch, ma anche ad Hennen Anglada. Non si può negare che il Viani, capace di dipingere luttuose figure femminili e tragici ritratti quasi esorcizzati dalle fumee dei fondali da incubi, sia il più comprensibile e noto, perché facilmente leggibile entro le maggiori traiettorie dell’arte d’Europa.
Ma a noi appare sempre più evidente la preminenza, nel suo linguaggio pittorico, di una misura di raffronto “antico” ma di natura fattoriana, per cui le immagini, una volta liberate dagli involucri emotivi che spesso le condizionano, si svolgono e respirano entro una dimensione lunga e placata, quasi modulare, pur nelle violente trazioni struttive. Un capolavoro straordinario come Vel rosse e gialli dimostra tutto ciò con palmare evidenza.
Vorremmo poi brevemente soffermarci sopra alcuni ritratti dipinti immediatamente prima del ’15: il Ritratto di Peritucco dal fiocco rosso, pur nella sua declamazione espressiva ha una tenuta di costruzione a dir poco sensazionale: nei volumi attutiti dalla violenza dei neri, rossi, bianchi, la stereometria del viso si staglia con un potenziale architettonico pari e simile a quello del Modigliani più alto anche nelle affinature dei lineamenti e negli occhi mandorlati che rinsaldano le fonti senesi e persiane. E così mentre Nomellini passato da Pascoli a D’Annunzio ed infine al Carducci, conferma, pur con sporadici risultati d’eccezione, la sua vena di retore salvato dai travolgimenti dell’emozione visiva, il nostro barbiere viareggino si insinua fin dentro il cuore del Novecento pur in quella dimensione fattorina che sino alla morte custodirà dentro la sua anima come sorgente primaria.
A Livorno, presso la scuola di Guglielmo Micheli, amatissimo e mediocre allievo di Fattori, studiava in quei primi anni del ‘900 un gruppo di giovani; fra loro Oscar Ghiglia, Amedeo Modigliani, Llewelyn Lloyd, Anthony de Witt, alcuni, allievi diretti, altri frequentatori dello studio del pittore; questa singolare figura di “galantuomo”, nella sua modestia riuscì ad essere il più intelligente trait d’union tra le idee del vecchio Maestro e il sunnominato gruppo di ragazzi già recalcitranti all’atmosfera asfittica della città di provincia.
Quasi tutti i giovani della media o alta borghesia, essi avevano rifiutato una formazione accademica che avrebbe rischiato di tarpar sin dalla nascita le loro volontà di sperimentazione. La scuola di Micheli offriva a loro la possibilità di misurarsi sul “vero” esercitando gli occhi e la mente in una immediata riduzione del “motivo” alle sue radici metriche e modulari. L’immagine, dunque doveva essersi costruita col mettere ad angoli e squadrature tutto l’insieme e cioè i volumi, o pieni , e gli spazi ,o vuoti, da quelli esterni o a quelli interni, risultandone un blocco o un’intelaiatura di parti campite e saldate nelle cui forme si inserivano toni e rapporti; l’articolazione e lo sviluppo coerente e correlato della compagine inutilizzava l’uso dell’impianto prospettico esterno e predisposto. Alla base di un insegnamento del genere è chiara la coscienza dell’intera problematica della “macchia” fattoriana nel suo intero percorso; un metodo di stereometria e quasi cristallografia, sboccante in una architettura visiva. Un metodo che certamente non si poteva dir consono ai dettami della moda tardoimpressionista e simbolista (non era ancor giunta in Italia la ventata cèzanniana) ma che abbiamo avuto la gioia di ritrovar applicato in alcuni disegni di Modigliani degli anni 1906/7 (molto simili nella sperimentazione a numerosi fogli di Lloyd degli stessi anni) pubblicati nel fondamentale recente libro di Alexandre.
Dunque tutti questi giovani, come si è visto formano ai lumi di una idea del dipingere che fino a poco tempo fa si giudicava lontana le mille miglia dalla più evoluta ricerca primonovecentesca: quella che proponendo un mutato rapporto tra l’oggetto e la sua percezione, porterà alla definizione delle cosiddette avanguardie storiche.
L’attività di Oscar Ghiglia in questo caso è realmente paradigmatica; è inesistente un suo qualsiasi rapporto con il tardo macchiaiolismo naturalista fiorentino; è invece più evidente il suo interesse per le secessioni europee, soprattutto per la loro fase involutiva neocinquecentesca e simbolic. Egli condivide con l’amico Modigliani una passione di radice ruskiniana per i classici “prima di Raffaello”, cita Dostojevskij, Nietzche e D’Annunzio ed ammira Boecklin. Questo perfetto prontuario del giovane decadente non compromette la sua capacità di rivedere continuamente i termini della propria cultura, salvi restando alcuni elementi basilari. Nel 1901 dipinge un’autoritratto alla tedesca che gli apre le porte della Biennale di Venezia; nel 1902 esegue Ritratto della moglie, di impostazione neocinquecentesca e di raffinata stesura decadente
Nel 1905 si compie nel suo stile una svolta fondamentale. Le forme si semplificano riducendosi al senso del puro volume-colore, con una così improvvisa radicalità da far pensare all’intervento di elementi esterni e fortemente “persuasivi”. In effetti, nella biennale del 1905 Vallotton espone un’opera ed una serie di xilografie; ma questo rapporto di causa – effetto che già noi avevamo indicato in un vecchissimo scritto su Ghiglia – ci persuade sempre meno; si dovrà convenire poi che gli effetti “alla Vallotton” che si possono notare in molte nature morte degli anni fino ed oltre il 19010, non facevano ancora parte del repertorio del maestro svizzero, che oltretutto di nature morte ne dipinse ben poche. Pur ammettendo che in Ghiglia è pesente in questo lasso di tempo anche la suggestione neoprimitiva e modulare dei pittori svedesi e norvegesi alla moda (comune anche a Vallotton) ci convinciamo sempre di più che questa depurazione stereometrica in una gamma cromatica limpidissima abbia origine da Fattori (il Fattori dei Rappezzatori di vele, della Barca); questa passione fattoriana del resto si concreterà nel 1917 in una splendida monografia da lui scritta e pubblicata dalla nuova casa editrice del suo amico e mecenate Gustavo Sforni, monografia che sarà la prima a rivelare il Fattori maggiore delle tavolette “neoquattrocentesche”.
Era certamente poi presente nello stile di Ghiglia una forma di neopurismo e addirittura di “ingrisme” evidente soprattutto nei disegni e nello splendido Ritratto di Prezzolini, esercitata però con un rigore spogliato da qualsiasi compiacimento arcaico, e privata soprattutto di quella retorica della semplificazione che di lì a pochi anni incomberà sopra la pittura europea dei vari “ritorni all’ordine”.
In questi anni tra il 1905 ed il 1915 Ghiglia dipinge alcuni dei capolavori della pittura italiana del secolo: il Ritratto di Prezzolini, la Tavola imbandita, il Pollo, la Camicia bianca, il Ritratto di Ojetti, La signora Ojetti in giardino, tanto per rammentarne alcuni. Il 1909 è per lui una data capitale, conosce attraverso il mercante Mario Galli, Gustavo Sforni, giovane di ricca famiglia ebraica, colto raffinatissimo, collezionista mecenate ed egli stesso pittore di doti non trascurabili; Sforni fu certamente una delle figure carismatiche della nuova cultura fiorentina; collezionista di Fattori e dei nuovi pittori toscani fu il primo in Italia a comprare opere degli impressionisti e fu con Ghiglia e Muller uno dei sostenitori più attivi di quella “riforma” cèzanniana che dal ’15 in poi, con accezioni e risultati diversi, sarà elemento attivo nel maturarsi di gran parte dei giovani artisti italiani.
In questa Firenze che stava diventando una delle capitali del cèzannismo europeo – anche per l’imponente numero di opere del maestro di Aix presenti nelle maggiori collezioni della città – Muller, oramai diradati i suoi furori impressionisti, si disponeva ad una vera e propria opera di proselitismo in senso cèzanniano dando vita ad una produzione pittorica fitta ed a volte quasi didascalica
Ghiglia, dal canto suo si servirà della pennellata “alla Cèzanne” per rafforzare la propria idea strutturale, compiendo una scelta in coeva consonanza con quella dei colleghi bolognesi (da Licini a Morandi), ed attuando tale scelta con il solito rigore intellettuale. Noi siamo convinti – ma potremmo sbagliarci – che tale esperienza provocasse nel pittore una sorta di raffreddamento problematico; l’ancora cèzanniana rimase, negli ultimi anni a venire, come garanzia storica e culturale del proprio dipingere, capace d’altra parte di porsi anche come remora ad una successiva maturazione o mutazione di linguaggio. Questo fa sì che, malgrado esegua ancora per tutto l’arco della sua vita opere spesso eccezionali, Ghiglia perda quella supremazia che per tutto il ventennio iniziale del secolo aveva fatto di lui una tra le personalità più complesse ed avventurose della giovane pittura italiana.
Questa supremazia gliela riconosceva anche Amedeo Modigliani; in un noto dialogo con Anselmo Bucci a Parigi dichiara al pittore lombardo con quel suo eccesso tutto caratteriale…”in Italia non c’è che Oscar Ghiglia!…” Allievo anch’esso di Micheli, il Modigliani toscano si ricorda solo per quest’amicizia consigliata o per quel tanto che può portare allori ad una piccola retorica regionale. Si dice che fosse un allievo inquieto, eppure Micheli lo sceglie, unico tra i suoi giovani di studio per una fotografia ricordo con il vecchio Fattori, e lo stesso Modiglaini eseguirà un tornito ritratto del figlio di Micheli; un carboncino che con pochissimi altri ectoplasmi testimonia la primissima attività del Nostro. Eppure sappiamo dai diari della madre e dalle testimonianze degli amici sopravvissuti sino alla nostra maturità (Natali, Romiti e soprattutto de Witt) di quanto il giovinetto dipingesse e disegnasse per imporre anche alla famiglia la sua vocazione, all’inizio mediamente contrastata. Molto probabilmente, come mi ricordava de Witt, lo stesso Amedeo, tornato per
Pochi mesi a Livorno da Parigi nel 1909, si era affannato a ritirare dagli amici a cui le aveva regalate, ed a distruggere tutte le opere di studio insieme a ciò che restava delle sua attività infantile nella casa paterna. A Livorno, in quei pochi mesi aveva dipinto un solo quadro, il Mendicante livornese, e se lo era portato via a Parigi; le prime sculture che aveva sperimentato e che erano rimaste poco più che abbozzi, non potendole portar con sé, le aveva gettate nei Fossi reali.
In ogni modo è chiara la volontà dell’ancor giovanissimo artista di presentarsi al mondo in un suo assetto linguistico definitivo; non perché ripudiasse le proprie origine fattoriane, ma per potersi considerar totalmente artefice della propria fisionomia, ritenendo gli anni infantili ancor legati a condizionamenti esterni; lo aveva fatto del resto lo stesso Ghiglia ed anche in maniera spietata, de Witt.
Per questo la nostra riproposizione di Modiglaini in questa schiera di pittori “antinaturalisti” di radice fattoriana, non vuole arrampicarsi sopra le ipotesi di tracce labili o di opere attribuite, ma indicare al persistenza lapalissiana di questa particolarissima educazione nell’attività già matura del pittore.
Del resto (a parte i disegni Alexandre di cui si è già parlato avanti), i due ben noti acquarelli con teste di donna, dipinti probabilmente al suo arrivo a Parigi nel 1907, in bilico tra preraffaellismo e secessioni, in un segno tagliente e costruttivo, ci ripropongono i processi mentali e stilistici che l”mico Ghiglia aveva esibito nel Ritratto delle moglie del 1902.
In realtà, quando Ghiglia esegue le opere che daranno a lui una rapida fama di ritrattista, Modigliani di poco più giovane è ancora in pieno sviluppo formativo e viaggia tra Venezia, Napoli, Roma, Firenze guardando musei ed appassionandosi per pittori che sembrerebbero le mille miglia lontani dalla sua sensibilità come Domenico Morelli, Giunto a Parigi la scelta del ritratto come unica realtà formale è già definitiva; il giovane guarda ancora alle secessioni impiantando figure che sotto una coloratura pezzata ed a volte grondante, danno il via a quello straordinario rapporto tra disegno e struttura che sarà il motivo maggiore del suo stile. Il Paul Alexandre del 1909 svolge il tema del ritratto assiale fortemente girato sulla positura variata del braccio visto nell’Alabardiere del Pontormo sperimentato anche da Ghiglia nel coevo Ritratto di Lloyd. Naturalmente in Modigliani è presente un elemento stilistico che non troveremo mai in Ghiglia (ma apparirà spesso nella ritrattistica di Viani), la serpentinatura, di origine manieristica che in lui si salderà con lo studio sui rapporti ellissoidali contrastanti che assumerà dalla scultura negra, cicladica ed indiana e dalla grafica persiana, ritornando, nelle Cariatidi, a Michelangelo attraverso Maillol, l’Antelami e Giovanni Pisano.
La serie dei cosiddetti Ritratti di Alwexandre è un rovello straordinario di interessi e chiarimenti malgrado alcuni eccessi d’impasto il pittore esce quasi faticosamente dalla schematizzazione dei ritratti in posa attraverso la definizione realmente stereometrica dei volumi facciali tentando di innestar la medesima con lo sviluppo metrico del corpo e con l’articolazione dello spazio di fondo. La scoperta di Cézanne gli rafforza l’insegnamento fattoriano, che traspare dal Ritratto di Joseph Levy, con una memoria dell’Autoritratto Giustiniani di Fattori.
Tra il 1909 ed il 1914 la pratica costante del disegno e della scultura sfocerà in alcuni ritratti imperativi eseguiti nel ’15 in un rapporto essenziale tra disegno ed impalcatura di spazio. Sono queste le opere che pongono Modigliani al vertice dell’arte del nostro secolo, proponendo un’idea spaziale desunta dall’antico ma assolutamente inimitabile al punto che lo stesso pittore sarà spesso portato ad equivocarla ed allegerirla in soluzioni decorative. Si ricorderanno i Ritratti di Kisling, di Paul Guillaume nelle tre emozionanti versioni, il Ritratto di Beatrice Hastings.
Nella strepitosa Parigi di quegli anni un’esperienza del genere (a cominciare da quella disegnativa) non ha accostamenti; le vie di Kisling e di Soutine sono totalmente diverse, così come quelle di Brancusi pur nell’affinità di alcune referenze culturali.
Non vogliamo con questo portar acqua al nostro mulino, ma le attinenze con alcuni ritratti dipinti da Viani nello stesso 1915 sono molto più problematiche.
Amico di Ghiglia e Modigliani, sodale di Sforni e testimone diretto della scuola di Micheli sulla quale ha lanciato numerose testimonianze è l’anglo-livornese Llewelyn Lloyd, che riapre il capitolo del divisionismo toscano per aver avuto – prima di approdare ad una pittura “a plat”, in certo modo simile a quella di Ghiglia – per lo meno sei anni (dal ‘4 al ’10) – un’attività divisionista tra i più singolari non solo in Toscana. Questa breve stagione viene da Lloyd vissuta in comunità con Amedeo Lori, altro squisito pittore di cui si comincia ora a ricostruire il catalogo ed Antonio Discovolo; pisano l’uno, bolognese il secondo, ambedue frequentatori assidui del gruppo puccinainao di Torre del Lago. Nel 1903 i tre pittori si trovano alle Cinque terre e poertano avanti i loro esperimenti sulla luce infuocata dei tramonti marini. Un quadro iperteso di colorature affocato come Tramonto a Manarola pur dimostrando in maniera forse un po’ ingenua nel suo radicalismo coloristico gli entusiasmi dell’adepto, adopera però la puntinatura già in maniera strutturale, segnando esattamente i volumi ed intricandosi in segni lanceolati – desunti dalle incisioni fattoriane – per meglio definire il primo piano del cespuglio controluce.
Man mano che procede nella sua attività di adepto divisionista Lloyd stempera gli effetti di questa tavolozza ipertesa forse anta dal riscontro di luce marina della Cinque terre; i suoi paesaggi, spesso di formato orizzontale per favorire la partitura panoramica a scaglioni, tendono sempre a fermare una luce transeunte ed indagarla nel suo potenziale emotivo. Ricorderemo il bellissimo La carezza del sole, in cui la pennellata non è solo un segno grammaticale, ma la cellula di un organismo, disponibile alle necessità dei risultati strutturali e di una luce che, affiorante nei primi piani attraverso ingorgature filamentose ed impasti di materia, man mano che si sprofonda sull’orizzonte alto, si inodora e si riscalda in una puntinatura sempre più fitta sino al trascolorare tra rosa e azzurro del cielo.
Questi quadri di Lloyd tra il 1904 ed il1910 rappresentano a nostro avviso uno dei capitoli interessanti e qualitativamente più emergenti nella storia del divisionismo italiano. Una revisione storica per altri versi di rara qualità, ha sempre relegato in secondo piano questi aspetti meno programmatici e simbolici del medesimo divisionismo (tranne gli eventi del divisionismo romano per il loro diretto sfocio nelle avanguardie futuriste), forse temendo che il loro radicalismo visivo fosse un segnale di riscossa naturalista piuttosto che la necessità di liberarsi nuovamente dalla pletora di significati “oltre” la pittura che quasi un secolo di civiltà del vedere in Francia e per lo meno vent’anni di esperienze macchiaiole in Italia non erano riusciti ad esorcizzare; forse si pensava e si pensa tuttora che gli impressionisti e di macchiaioli fossero veramente “bas de plafond”!
Del resto anche in Toscana (a parte il caso Nomellini) si ha in questi anni del primo novecento un interessante caso di divisionismo “spiritualista”, quello di Benvenuto Benvenuti, allievo di Grubicy, di cui si parla dettagliatamente in altra parte del catalogo.
Più rischiosa e per certi versi difficile è da parte di chi non partecipa direttamente gli eventi di questa singolare “storia toscana” la lettura di due pittori isolati; isolati sia per ragioni caratteriali molto vicine alla patologia, sia per una loro caparbia e tutto sommato attiva volontà di crescere esclusivamente nella loro storia in una sorta di sincronia così accentuata da rendere perfino difficile la datazione di una produzione relativamente fluviale; si tratta di Giovanni Bartolena e di Mario Puccini, livornesi recidivi.
Parleremo per primo di Bartolena proprio per il disagio che ancora ci provoca un giudizio sopra la sua personalità. Che parte dell’opera di questo pittore sia una delle cause dell’equivoco critico che ancora è alla base del giudizio sulla pittura toscana di questo secolo è cosa indubitabile; e indubitalbile è anche la ridotta articolazione del suo linguaggio, la limitazione del suo registro pittorico. Superate queste scogliere si deve però costatare la perentorietà di un linguaggio che può arrivare a risultati imprevedibili (si ricordi l’ammirazione che avevano per lui Tosi e Carrà); non si deve poi trascuare il recupero che egli compì del “formato mediopiccolo” o ridottissimo in cui sembra riproporsi la funzionalità metrica della primèva tavoletta macchiaiola. In essa lo spazio viene squadrato e misurato a moduli nei quali dilaga, con sensibilità quasi corrusca, una reinvenzione materica dell’antica pennellata di macchia. Sono smalti timbrati perfettamente, privi di rapportatura tonale, incastarti e scontrati con una misura che par suggerirci una (non si sa fino a che punto) inconscia meditazione “tachiste” In questi spazi artificiali di risonante effetto pittorico spesso le figurette perdono i loro connotati narrativi adattandoli a quella struttura automatica secondo schemi “infantili” già presente in Ulivi Liegi e forse risalente alla conferenza sul disegno dei bambini tenuta da Corradi Ricci a Firenze. Negli stessi anni la stessa esperienza rinnovata in un più ricco contesto culturale definirà una stagione della pittura toscana da Levy a Magri, da Viani sino al primo Rosai.
Questa vera e propria rimeditazione istintiva ma radicale di Bartolena sulla pittura di macchia, ha dunque i meriti di una sorgiva affermatività e i demeriti di una scarsa autocoscienza. Ma quando si attua al suo meglio non lascia margine a dubitazioni di lettura e aggredisce la nostra sensibilità con una carica eversiva di effetto immediato.
Certamente diverso è il problema di Mario Puccini, anch’egli isolato per propria volontà e per una caratterialità realmente patologica, ma straordinario artista, tra i maggiori che abbia avuto l’Italia agli inizi del secolo. In effetti l’eccellenza di Puccini è di difficile definizione sia per mancanza di supporti biografici sia per l’evidente ridotto sviluppo interno del discorso pittorico.
I suoi inizi – mediamente fattoriani – ce lo presentano ancor legato ad un ridotto cromatismo variato sopra la definizione delle struttura; ma è una fase di durata breve; come per Bartolena, ma con esiti diversissimi, il colore diviene protagonista della ristrutturazione di una arrischiata immagine spaziale. È un colore inedito che pur non rinunciando all’accordatura tonale, costruisce l’immagine ponendosi come elemento definitorio della struttura medesima. Nasc3e così un’immagine di fortissimo risalto cromatico e di nettissima spazialità, in un continuo ricambio tra il livello connotativi del colore e la sua nuova finzione di misura costruttiva; possiamo ricordare il riferimento a quel tipo di veduta a costruzione dinamica interna che Fattori aveva definito dipingendo un’opera capitale come l’Aratura e che il Nostro riprende e risolve scaglionando violentemente le partiture coloristiche.
Un procedimento del genere è le mille miglia lontano dalla coltissima ricerca di una istintività primigenia che attraverso filtri decadenti definisce la poetica dei “Fauve” troppe volte a lui inopinatamente paragonati da una critica sommaria.
Le opere più alte di Puccini nascono da un’impellenza attiva in un cerimoniale d’autoisolamento di forzatura quasi eroica; i riferimenti a Monticelli o la ripresa abbastanza rara della puntatura filamentosa alla Nomellini non scalfiscono minimamente questa poetica della solitudine. Del resto a suffragare questa nostra interpretazione forse un po’ inconvenzionale del linguaggio pucciniano sta la predilezione che per lui ebbe Gustavo Sforni il più raffinato e “fattoriano” del parnaso culturale della Firenze d’allora.
Il nostro breve discorso, e la mostra che lo supporta, si chiude con l’evocazione di un singolarissimo pittore da noi molto amato non solo per la qualità spesso iperborea del suo dipingere, ma per essere stato il più lucido e raffinato testimone – in piena coscienza contemporanea ed europea – della stagione da noi appena sogguardata: Anthony de Witt allievo di Fattori e di Adolfo Tommasi, segretario del Pascoli, amico di Puccini ebbe in gioventù una attività di meditata radice naturalista, presto risolta in puro esercizio di stile. In una convinzione quasi autolesionista ma di coscienza rigorosa distrusse quasi completamente, negli anni maturi, tutta la precedente attività nella quale non fosse evidente quel distacco mentale che dagli anni intorno al 19015 in poi sarà alla base del suo dipingere e del suo scrivere.
La sua sensibilissima memoria (sensibile ma priva di compiacimenti e di attardamenti emotivi) è alla base del recupero dei materiali storici come elementi distaccati eppur lancinanti di un nuovo discorso. Nasce da una siffatta operazione un gioco formale azzardato, che col passare degli anni e sino alla felicissima vecchiaia, diverrà sempre più complesso e seducente.
In lui le memorie fattoriane, quelle del quattrocento senese, della grafica persiana, della xilografia quattro-cinquecentesca (che conosceva a la perfezione anche nel suo aspetto tecnico), tutte insomma le innumeri seduzioni di una vita trascorsa a “guardare” il mondo passato e presente sotto specie formale, divengono spessi brani di alta poesia mentale, come nel Pascoli maggiore.
Conclusione più impervia alla nostra mostra non potevamo trovarla; ma siamo sicuri che essa sia anche di tale mostra la conclusione più impredibile logica.