Conversation Piece | Part III _ Take an object / Do something to it / Do something else to it
Jonathan Baldock, Piero Golia, Magali Reus, Claudia Wieser
A cura di Marcello Smarrelli
16 dicembre 2016 – 2 aprile 2017
La Fondazione Memmo Arte Contemporanea presenta Conversation Piece | Part III, la terza di un ciclo di mostre, curate da Marcello Smarrelli, dedicate agli artisti italiani e stranieri momentaneamente presenti a Roma o particolarmente legati alla città. Gli artisti invitati per questo nuovo appuntamento sono: Jonathan Baldock, Piero Golia, Magali Reus (dutch fellow at the American Academy in Rome), Claudia Wieser (borsista all’Accademia Tedesca di Roma Casa Baldi).
Il progetto nasce dal desiderio della Fondazione Memmo di monitorare costantemente la scena artistica contemporanea della città, difficile da percepire per il grande pubblico, ma particolarmente vitale grazie all’attività delle gallerie, delle fondazioni, delle accademie e degli istituti di cultura stranieri dove tradizionalmente completano la loro formazione nuove generazioni di artisti provenienti da tutto il mondo. Attraverso queste mostre e altre attività quali talk, workshop e performance la Fondazione Memmo vuole essere un amplificatore del lavoro di queste realtà.
Il titolo del ciclo si ispira ad uno dei film più famosi di Luchino Visconti, Gruppo di Famiglia in un interno (Conversation Piece, 1974), che a sua volta si riferisce a un particolare genere di pittura, diffuso nei Paesi Bassi tra XVII e XVIII sec., caratterizzato da gruppi di persone in conversazione tra loro o colti in atteggiamenti di vita familiare. La mostra, infatti, vuole porsi come un momento di confronto e di dialogo con Roma, con la sua storia antica e contemporanea, ma anche come un momento di discussione tra personalità artistiche diverse e a volte distanti tra loro.
Anche in occasione di Conversation Piece | Part III è stato chiesto agli artisti di riflettere su un tema in particolare, legato alla natura degli oggetti e all’uso che ne fanno nella propria pratica artistica. «Forse l’immobilità delle cose intorno a noi – osservava Marcel Proust – è imposta loro soltanto dalla nostra certezza che esse siano questo e non altro; dall’immobilità del nostro pensiero verso di loro», dunque se ci accostassimo alle cose da altri punti di vista, potremmo conoscere risposte diverse e nuove che rimarrebbero altrimenti sconosciute. È questo uno dei temi fondamentali dei movimenti d’avanguardia più radicali del Novecento, come il Cubismo, il Dadaismo, il Surrealismo che approdano alla fine degli anni cinquanta al New Dada, basato proprio su un nuovo interesse per l’oggetto quotidiano che la junk culture, la cultura dello scarto, ripropose con un’operazione di détournement trasmettendolo ai movimenti nati subito dopo: la Pop Art, il Minimalismo, l’Arte Concettuale.
Si tratta di quel principio di defamiliarizzazione dell’oggetto riproposto da Jasper Johns nei primi anni sessanta con l’affermazione: “Take an object / Do something to it / Do something else to it” (“Prendi un oggetto, facci qualcosa, facci qualcosa di diverso”), che diede vita ad un fenomeno che diverrà il leitmotiv di un’intera generazione di artisti e critici.
L’uso di oggetti mutuati direttamente dalla realtà riapre una questione sempre attuale nel dibattito sul contemporaneo, rivitalizzata dal filosofo Arthur Danto nel 1964 quando, visitando la mostra in cui Andy Warhol esponeva per la prima volta la serie delle Brillo Boxes, concluse che l’arte aveva ormai raggiunto il punto massimo di autocoscienza, in quanto l’opera non era più distinguibile da un prodotto commerciale: qualsiasi oggetto può essere un’opera d’arte, anche se non ogni opera è separabile dal suo tempo e il suo “valore” non dipende esclusivamente da proprietà intrinseche o osservabili.
Le opere di Jonathan Baldock, Piero Golia, Magali Reus e Claudia Wieser esposte in questa mostra sembrano voler dire la propria in questo lungo e complesso dibattito esprimendo, ognuno con il linguaggio che gli è peculiare, la stupefacente e inaspettata potenza dell’oggetto banale quando, grazie all’intervento dell’artista, entra nella dimensione “altra” di uno spazio espositivo.
Photo credits: Daniele Molajoli