Canova all’Ermitage
15 ritratti tra i più importanti marmi provenienti dall’Ermitage di San Pietroburgo
e 60 opere della collezione Farsetti.
12 Dicembre 1991 – 08 Marzo 1992
Roma – Palazzo Ruspoli (130.000 Visitatori)
Catalogo Marsilio
RIFLESSIONI SU CANOVA E L’ANTICO
Irene Favaretto
“Ho veduto i marmi venuti di Grecia”, scriveva Antonio Canova da Londra il 9 dicembre del 1815 all’amico Quatremère de Quincy. Tutto il mondo della cultura internazionale era in attesa del giudizio dello scultore sui marmi partenonici, non solamente il governo inglese che doveva procedere all’acquisto e da Canova voleva l’assicurazione che si trattasse effettivamente di opera di Fidia.
La risposta di Canova non si fece attendere; del resto già un mese prima, scrivendo a Lord Elgin, il quale aveva preferito non venire a Londra durante le trattative di vendita, egli aveva definito le sculture “memorabili e stupende”. L’entusiasmo e l’ammirazione espresse da Canova per i marmi del Partenone contagiarono studiosi, artisti e semplici curiosi e misero a tacere quelle voci contrarie che li avevano giudicati rozze copie o li avevano datati all’età dell’imperatore Adriano.
L’autorità del giudizio di Canova, interpellato non solo come massimo scultore vivente, ma anche come profondo conoscitore della scultura antica, era dunque indiscussa. Egli stesso del resto già nel 1803 aveva consigliato a Lord Elgin, che fermatosi a Roma al ritorno dalla Grecia lo aveva consultato sottoponendogli una serie di disegni delle sculture allora in viaggio per Londra, di non operare sui marmi partenonici alcun intervento di restauro, perché, così si espresse, sarebbe stato sacrilegio per lui o chiunque altro anche solo pensare di toccarli con lo scalpello.
Canova e il suo rapporto con l’arte antica: tema affascinante e difficile, già affrontato da molti studiosi, storici dell’arte e archeologi, che permette però, proprio per la complessità dell’argomento, ancora spunti di riflessione in gran parte inediti.
In questo specifico campo, le posizioni degli studiosi sono contrapposte: spesso l’archeologo, alla ricerca dei modelli che ispirano lo scultore, vede l’arte di Canova come prodotto, se non di imitazione, di cerebrale interpretazione dell’arte classica; mentre lo storico dell’arte moderna tende talvolta a sottolineare l’influenza sull’arte di Canova delle manierate e accademiche copie romane di originali greci presenti a Roma, per di più “inquinate” da restauri e integrazioni neoclassiche.
Canova invece conobbe l’arte antica non solo studiando le grandi statue di Roma, ma anche attraverso un’ampia varietà di opere, sia copie che originali, e a tutte dedicò la sua attenzione d’artista, documentata molto spesso da schizzi e disegni.
Sarebbe doveroso un esame accurato dell’elenco dei calchi in gesso di sculture antiche della raccolta Farsetti, tutte considerate ancora oggi ottime copie di originali per lo più ellenistici e alle quali si deve il primo impatto di Canova con l’arte classica. Da tale esame, infatti, deriverebbero preziosissime informazioni anche sulla cultura e il gusto dell’abate e mecenate che l’aveva formata proprio con lo scopo di offrire ai giovani artisti veneti del tempo un'”accademia” di disegno.
La scelta non appare così scontata: sicuramente l’abate Farsetti non aveva badato a spese per far venire da Roma e da Firenze, ma anche da Spagna e Inghilterra, calchi delle rinomate sculture. Alcune di queste dovettero lasciare una traccia indelebile nel giovane Canova: al Laoconte, presente nella raccolta sia in calco che in riduzione, ritornò più volte in epoche successive, e anche a una figura di Afrodite accosciata, nota oggi come l’Afrodite di Doidalsas, o Venere di Troja come talvolta allora veniva chiamata (e come appare nell’elenco dei gessi Farsetti) egli dedicò un disegno, oggi al Museo Civico di Bassano, non datato, eseguito forse a Roma quando si trovò dinanzi a una copia da poco rinvenuta in uno scavo, o quando vide la replica del Louvre o quella di Londra, dalla quale appunto il calco Farsetti era stato tratto.
Durante il viaggio che nel 1779 lo condusse a Roma Canova, allora solo ventiduenne, diede prova di aver già maturato questa prima lezione sul mondo antico, descrivendo e disegnando con competenza quelle antichità che andavano attirando la sua attenzione, come le anfore romane inserite sulla facciata dell’Università di Ferrara.
A Roma iniziò uno straordinario percorso che giorno dopo giorno lo portò a visitare tutte le raccolte pubbliche e private della città; poté così vedere anche quelle opere antiche che di lì a qualche anno sarebbero state vendute o disperse. Già il giorno dopo il suo arrivo andò al cortile delle statue del Belvedere e il contatto diretto con il Laoconte e l’Apollo, da lui studiati sui calchi Farsetti, dovette essere emozionante.
A fine gennaio dell’anno successivo, Canova si recò a Napoli, a Paestum, a Pompei e a Pozzuoli, dove visitò chiese e gallerie di dipinti, ma soprattutto scavi, edifici antichi e il grandioso nuovo Museo di Portici con le antichità di Ercolano. Ritornato a Roma, riprese a visitare le raccolte patrizie per studiare quelle statue antiche che ancora non aveva potuto vedere.
Questi primi anni romani, intensi di studio, diedero a Canova una approfondita conoscenza dell’arte classica, mediata attraverso schizzi e disegni, e ragionata attraverso schizzi e disegni, e ragionata attraverso i continui dialoghi con gli amici veneti incontrati, come Giannantonio Selva e Giovanni Volpato, o con gli amici stranieri come Gavin Hamilton e Quatremère de Quincy, ai quali si legherà per tutta l avita e dai quali trarrà consigli e suggerimenti anche e proprio per il suo tormentato e discusso approccio con l’antico.
Le opere d’arte che poté vedere e studiare si sedimentarono infatti nella sua memoria divenendo nel tempo un originale bagaglio culturale di immagini e suggestioni che affiorarono nella sua opera anche a distanza di parecchi anni. Egli, come sappiamo, non copiò mai direttamente da statue antiche, per sua precisa volontà e perché il copiare era in evidente contrasto con la sua capacità creativa, ma spesso troviamo nella sua arte alcuni motivi che dovevano averlo fortemente impressionato.
Tra i tanti esempi che in tal senso si potrebbero proporre, vorrei ricordare la sua Erma di Saffo, eseguita in più di una versione tra 1819 e 1820: sicuramente nella forma di quest’erma, come in altre da lui scolpite, dovette operare il ricordo della serie di erme e busti provenienti dalla raccolta della villa dei Papiri presso Ercolano, una delle più vaste e importanti collezioni del mondo romano che siano giunte fino a noi e già al tempo di Canova collocata a Napoli nel Museo di Portici. Ma c’è di più: tra i tanti filosofi, condottieri e le tante teste di divinità un tempo nella villa, vi è proprio un ‘Erma di Saffo, la cui pettinatura, discriminata sulla fronte e raccolta dietro in un nodo trattenuto da due nastri incrociati sul capo, si ritrova identica nella Saffo canoviana, seppure ingentilita e impreziosita quest’ultima dai boccoli sfuggenti ai lati della fronte.
La stessa raccolta di antichità, allestita da Canova nello studio rimano di via San Giacomo, seppure non di eccelso livello qualitativo, permetteva certamente allo scultore di essere a continuo contatto con numerosi frammenti d’arte romana decorativa, prodotti considerati minori, ma comunque sempre di grande eleganza esecutiva. La gioiosa invenzione canoviana delle danzatrici, che deve forse lo spunto a raffigurazioni su vasi greci e ad affreschi pompeiani, più domesticamente gli poteva essere proposta anche da quelle terrecotte figurate romane con motivi di menadi danzanti che formavano il nucleo più consistente della sua collezione.
L’interesse per l’antico era in Canova sempre presente; lo studio attento dei singoli pezzi, con l’ausilio indispensabile del disegno, gli permetteva di ricordare ogni particolare, ogni motivo, intessendoli in proficue associazioni di idee.
I Dioscuri del Quirinale, a cui egli aveva dedicato in gioventù una nutrita serie di disegni, gli suggerirono, nel 1802, un breve scritto a stampa, esemplare nella sua linearità e precisione, in cui egli propose una diversa sistemazione dei due colossi che si sarebbero dovuti disporre affrontati, ma lungo una medesima linea, quasi si trattasse di un altorilievo. Un dotto accenno a una tavola delle Antiquities of Athens di Stuart per un confronto con uno dei cavalli partenonici conferma inoltre in Canova una ricerca costante che andava al di là dell’aspetto esteriore della scultura per affrontare consapevolmente problemi esegetici.
Sicuramente si ricordò dei Dioscuri, quando disegnò il particolare della corazza da un frammento di statua colossale che si trovava allora a Venezia nella raccolta dei Grimani di Santa Maria Formosa. Il motivo è infatti del tutto simile a quello delle due corazze appoggiate alle gambe dei Dioscuri romani e tale somiglianza non dovette sfuggire a Canova.
Ma anche altre antichità allora a Venezia si ritrovano tra i disegni di canova, ancora inediti, eppure di grande significato per la produzione dello scultore.
L’allestimento di Umberto Franzoi
È mia convinzione, che tra i tanti fattori che concorrono al successo culturale e di pubblico di una mostra, non sia da trascurare l’apporto dato dal suo allestimento, dalla sua “messa in scena”. In primo luogo si è tenuto cnto della varietà degli ambienti a disposizione, in termini di spazio, entro i quali la mostra si sviluppa.
Ne è derivata una scelta programmatica che, pur mantenendo la libertà ambientale, cioè la sensazione delle sale e della loro dimensionalità spaziale, ha presupposto l’inserimento di elementi particolare di lettura.
Una prima scelta è costituita dal totale abbassamento della luce ambientale proveniente dall’esterno e dall’adozione dell’illuminazione artificiale. In questo modo si ottengono tre risultati:
Si uniforma la lettura ad un unico costante livello di luminosità;
Si impediscono sovrapposizioni e invadenza dall’esterno, diverse per tipo e dimensionalità, delle varie stanze;
Si privilegia infine di concentrare l’attenzione del visitatore sulle opere esposte.
La seconda scelata proggettuale allestitiva consiste nel rifugio totale e funzionale di avvalersi degli ambienti quale elemento di supporto e di fondale delle opere; e nell’adozione di pannelli di sostegno per creare intorno ai dipinti quell’area di isolamento necessaria per una corretta visione. Questi pannelli, elementi di comprensione ed al tempo stesso isolano l’opera d’arte su un piano di totale irrealtà e immaterialità, al fine di dare realtà e materialità soltanto a ciò che costituisce “l’oggetto mostra”.
Come si sarebbe potuto raggiungere questo risultato e trasformare il rozzo, in tal caso perfino volgare materiale, quale un legno multistrato, una tela, una dipintura ? Ancora una volta soltanto la luce avrebbe potuto cogliere e rendere possibile l’idea: una morbida luce soffusa nello spessore appositamente creato tra il pannello di fondo e la tela, uniformemente grigia, tesa sul davanti lungo la linea del contorno ; una luce che si distribuisce dal centro, sotto il dipinto, verso i lati di perimetro del pannello, in equilibrio con la vibrazione di fasce colorate su vari toni di blu-celeste-bianco, che annullano l’intensità della prima fascia di emissione per distribuirla verso l’esterno fino a battere sul contorno e definirlo.
L’allestimento è stato così una ricerca di luce nella luce, una a strazione luminescente, malgrado la materialeità degli elementi adoperati, sulla quale ogni dipinto trova la propria sospensione immaginifica.